I contratti al tempo della pandemia
Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 22 marzo 2020 ha disposto la sospensione di molte attività industriali, commerciali e professionali ritenute non essenziali o strategiche, incidendo inevitabilmente e significativamente sul loro assetto economico e di bilancio.
L’effetto, poi, è tanto più evidente ove si consideri che la sospensione disposta appare destinata a protrarsi oltre il termine originariamente previsto e che, ai sensi dell’articolo 4 del decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020, inoltre, il mancato rispetto delle misure normativamente imposte – tra le quali figura anche la suddetta temporanea chiusura di attività non essenziali – è presidiato con l’irrogazione di varie sanzioni amministrative o, ove il fatto costituisca reato, penali.
Tale provvedimento si aggiunge alle già numerose misure restrittive poste a contenimento dell’attuale pandemia Covid 19 e sembra destinato ad avere ripercussioni, sia oggi che nel futuro prossimo, sui contratti eventualmente stipulati dalle società e/o dalle persone fisiche, per fini imprenditoriali e/o
professionali e/o personali, prima dell’evento pandemico e delle connesse disposizioni normative.
Dal fermo delle attività economiche così disposto deriva dunque l’opportunità di comprendere come simili eventi eccezionali, esclusi dal controllo delle parti e non imputabili ad alcuna di esse, possano incidere sui vincoli contrattuali precedentemente assunti, alterandoli e, talvolta, risolvendoli.
Ciò accade, in particolare, con riferimento ai contratti conclusi per regolare rapporti di lunga durata, con una rilevanza, spesso, centrale nell’organizzazione di ciascuna parte contraente, relativi tanto ad operazioni semplici o di modesta entità, quanto ad operazioni tecnicamente ed economicamente più complesse.

L’attuale scenario suggerisce dunque di riflettere sul destino riservato ai contratti conclusi prima della crisi sanitaria, inevitabilmente impattati da quest’evento e, nella maggioranza dei casi, non corredati di clausole tese a disciplinare i rapporti tra le parti in caso di insorgenza di fenomeni straordinari e, sicuramente, di epidemie o pandemie.
Si tratta, cioè, di capire se il ricorso ai principi ed alle regole generali del diritto civile offra una soluzione alla questione e, ancor più, in che termini possa essere invocato lo spirito di leale collaborazione tra le parti contrattuali, chiamate a cooperare fra loro al fine di evitare la risoluzione di tutti i rapporti ad oggi pendenti, e di favorire così una ripresa rapida e florida degli scambi economici e commerciali. Il primo riferimento che i predetti principi legali offrono in tema di conseguenze contrattuali delle misure di blocco normativamente imposte corre alla figura della temporanea impossibilità sopravvenuta della prestazione, cioè al caso in cui una delle parti viene a trovarsi – dopo la stipulazione del contratto – nell’impossibilità oggettiva di eseguire la prestazione posta a suo carico dal contratto. Ai sensi dell’articolo 1256, comma 2, c.c., infatti, in caso di impossibilità temporanea della prestazione derivante da una sopravvenienza straordinaria, imprevedibile ed indipendente dalla volontà delle parti, il contraente impossibilitato ad adempiere “non è responsabile del ritardo nell’adempimento”. In sostanza, a fronte del mancato adempimento di una prestazione che non sia imputabile al contraente non si dà luogo alla risoluzione del contratto, né alla responsabilità per inadempimento del debitore, ma alla sospensione della sua prestazione. A confermare una simile impostazione è la stessa normativa emergenziale che all’articolo 3, comma 6bis, del decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020 (convertito con modificazioni dalla legge n. 13 del 5 marzo 2020) specifica come il rispetto delle misure di contenimento debba sempre essere valutata “ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardi o omessi adempimenti”.
Ne consegue che, l’attuale temporanea impossibilità della prestazione potrebbe determinare l’estinzione della relativa obbligazione e, dunque, la risoluzione del contratto esclusivamente nel caso residuale in cui – perdurando ulteriormente per tempo sufficiente l’impedimento – “in base al titolo della obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non potesse essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non avesse più interesse a conseguirla”.
In sostanza, si può dire che, in tutti i casi in cui la prestazione dedotta nel contratto è impedita dalle misure contingenziali adottate per fronteggiare la pandemia in atto, questa potrà rimanere inadempiuta fino al termine dell’impedimento, salvo che per il protrarsi di quest’ultimo nel tempo – considerata la natura della prestazione o del suo oggetto – l’obbligo non possa sopravvivere o colui che dovrebbe riceverla non abbia più interesse a beneficiarne. Si pensi, a titolo d’esempio, alla prestazione dovuta da una scuola d’infanzia privata che, in seguito alla chiusura delle attività scolastiche disposta a partire dal mese di marzo, versa oggi nell’impossibilità di rendere il proprio servizio in favore dei minori iscritti. Impossibilità che, allo stato attuale, si manifesta come temporanea, ma che ben potrebbe tradursi in definitiva allorché tale misura restrittiva fosse prorogata sino al termine del contratto annuale di iscrizione.
Va da sé, però, che la nostra riflessione sulle implicazioni, a livello contrattuale, dell’epidemia Covid 19 e delle restrizioni adottate con riferimento a singole attività economiche o di vita di relazione non può esaurirsi solo in tali termini. Infatti, se in alcuni casi gli eventi eccezionali di cui stiamo parlando rendono temporaneamente «impossibile» l’esecuzione del contratto, invece, in numerosi altri casi la sopravvenienza straordinaria in atto non interferisce sulla possibilità, ma sulla sua «onerosità» e sul suo «equilibrio» rispetto alla controprestazione.
In alcuni casi, in sostanza, l’esecuzione del contratto non è “impedita” dalle misure adottate o dalla pandemia, ma resa molto più pesante, difficile e, quindi, “onerosa” per una delle parti o, quanto meno, ben più onerosa di quanto varrebbe il ristoro costituito dall’esecuzione della controprestazione convenuta dalle parti al momento del perfezionamento del contratto.
Per tornare ad un esempio, si pensi al contratto stipulato dal gestore di un’attività (considerata) non essenziale e pertanto tenuta alla chiusura temporanea ai sensi della normativa vigente, con un centro commerciale, per la fruizione di uno spazio da adibirsi alla vendita dei propri prodotti.
Posta in questi termini, la questione conduce dunque a riflettere sulla tematica – già in precedenza molto discussa sia in dottrina che in giurisprudenza – della ripartizione del rischio contrattuale «atipico», ossia generato dal verificarsi di circostanze «straordinarie ed imprevedibili», perturbative dell’originario equilibrio contrattuale.
Come tutti i contratti, anche quelli di lunga durata sono contraddistinti da un equilibrio tra le prestazioni contrattuali rispettivamente poste a capo delle parti; equilibrio individuato sulla base di valutazioni compiute al momento della conclusione del contratto, alla luce dei valori di mercato e delle circostanze concrete in cui versavano allora i contraenti (si pensi, ad esempio, al volume e al ciclo degli affari, alla solvibilità, ecc.). Vien da chiedersi, dunque, cosa accada quando, durante l’esecuzione del contratto si verifichino sopravvenienze imprevedibili – come quella epidemiologica in corso – tali da alterare in maniera significativa l’originario equilibrio tra le prestazioni, ossia eventi che, se noti alle parti già in sede di raggiungimento dell’accordo, le avrebbero indotte a non concluderlo ovvero a concluderlo a condizioni notevolmente diverse. Fatte salve eventuali pattuizioni contrattuali idonee a regolare i rapporti tra le parti dinanzi a simili eventi, ai sensi dell’articolo 1467 c.c.: “Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto [..] La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.
Alla luce di tale disposizione, quindi, nell’attuale situazione epidemiologica e/o in casi ad essa analoghi, il contraente svantaggiato dall’evento straordinario sopravvenuto ha diritto di chiedere, ed ottenere, lo scioglimento del vincolo contrattuale antecedentemente assunto e divenuto eccessivamente oneroso. Tale risoluzione può essere evitata dalla sua controparte, alla quale è riconosciuta la possibilità di proporre una rimodulazione delle pattuizioni originariamente stipulate, al fine di ricondurle ad equità.
Non è detto, tuttavia, che il rimedio estintivo – consistente nella cancellazione degli effetti del contratto pendente – sia quello più convivente per la parte che, secondo legge, è legittimata ad attivare il suddetto procedimento di riequilibrio del rapporto.
È possibile, infatti, che il contraente “svantaggiato” dall’evento sopravvenuto non abbia alcun interesse a porre fine ai rapporti contrattuali intrattenuti sino a quel momento, conservando piuttosto la volontà di proseguirli anche alla luce della circostanza imprevedibile verificatasi, semplicemente ottenendo una nuova pattuizione di quelle sole clausole divenute, appunto, eccessivamente onerose.
In questo caso, la questione si sposta sul terreno della conservazione del contratto anteriormente stipulato che, come noto, non rappresenta solo un interesse del contraente svantaggiato, ma può corrispondere anche all’esigenza più generale dell’ordinamento e della società alla conservazione dei rapporti giuridici e alla protezione dei traffici e degli affari in essere.
Or bene, la questione è che questo interesse non trova espressa tutela in una previsione normativa che imponga alle parti di porre in essere quanto occorrente per mantenere in vita il rapporto, attribuendo loro il diritto-dovere di rinegoziare il contratto che ha visto alterarsi il suo equilibrio originario in seguito all’insorgenza di sopravvenienze straordinarie, imprevedibili, non imputabili ad alcun contraente.
L’assenza di una simile norma di carattere generale – come di una clausola contrattuale ad hoc (c.d. hardship clause) – non implica, però, che situazioni come quelle in esame siano destinate ad esaurirsi in fenomeni risolutori, senza che venga loro accordata alcuna forma di tutela.
Come sostenuto anche da autorevole dottrina, infatti, ove sussista la possibilità di mantenere gli effetti del contratto – e ciò rappresenti anche la soluzione più efficiente in termini economici – sarebbe auspicabile che le parti adeguassero il vincolo precedentemente assunto alla luce delle nuove sopravvenienze, senza giungere alla risoluzione (seppur consensuale) dei rapporti intercorrenti fra loro.
A ben vedere, secondo questo insegnamento, in caso di richiesta di rinegoziazione proveniente dal contraente “svantaggiato”, tale auspicio si tradurrebbe in un vero e proprio obbligo posto a capo della controparte, quale corollario del principio di «buona fede» legalmente codificato. Si tratterebbe, cioè, di un obbligo conseguente al principio codificato dall’art. 1375 c.c. secondo cui “il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”, e al quale non solo le parti dovrebbero adeguare i propri comportamenti durante l’esecuzione, ma che permetterebbe anche di integrare il contratto stesso in assenza di coerente comportamento delle parti.
In altri termini, siccome la buona fede introduce ulteriori obblighi di protezione e solidarietà in capo ai contraenti, tenuti a porre in essere tutti quei comportamenti, anche non espressamente codificati, necessari a preservare l’interesse della controparte, nel caso di specie, ben si potrebbe sostenere che esiste l’obbligo di trattare nuovamente, in maniera seria ed effettiva le clausole divenute eccessivamente onerose e, quindi, inique.
In base al principio di buona fede, quindi, ciascuna parte sarebbe tenuta a raccogliere l’invito della propria controparte a rinegoziare, ponendo in essere tutti gli atti idonei – in base agli usi, alla natura dell’affare ed alle circostanze – per favorire il raggiungimento di un nuovo accordo equilibrato rispetto alla sopravvenienza intervenuta, eventualmente proponendo anche modifiche o soluzioni differenti, conformi alla propria convenienza economica e all’economia del contratto.

Di contro, qualora il contraente chiamato a rinegoziare il contratto divenuto iniquo rifiutasse ingiustificatamente le trattative ovvero che le conducesse in maniera maliziosa, ben potrebbe essere ritenuto inadempiente all’obbligo di buona fede e, quindi, passibile sia di subire una condanna in termini di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di rinegoziare le clausole divenute eccessivamente onerose, sia patire le conseguenze della risoluzione per sua colpa del contratto e del correlativo risarcimento del danno. In altri termini, considerare il dovere di rinegoziare quale declinazione del generale obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto, significa ritenere che l’eventuale violazione del medesimo ad opera di un contraente, comporti la sua responsabilità contrattuale e il diritto di controparte di richiedere, per l’effetto, la risoluzione del contratto per inadempimento, nonché il risarcimento del danno patito in seguito alla lesione stessa. Qualora, però, la parte “diligente”, anche davanti all’inadempimento della propria controparte, conservasse l’interesse alla perduranza del contratto, nulla osterebbe – seguendo il ragionamento predetto – a riconoscerle il diritto ad ottenere una condanna d’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di rinegoziare in alternativa al rimedio delle risoluzione. In sostanza, seguendo la tesi in questione, il Giudice potrebbe pronunciare una sentenza costitutiva degli effetti della rinegoziazione e, quindi, riformulare le clausole divenute eccessivamente onerose.
Occorre sottolineare, però, che questa ricostruzione della disciplina applicabile ai casi di eccessiva onerosità sopravvenuta non trova, oggi, alcuno specifico riscontro normativo, essendo frutto dell’elaborazione di alcuni orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, sicuramente autorevoli e largamente condivisi, soprattutto, nel dibattito apertosi in occasione dell’odierna pandemia. Nel quadro precedentemente tratteggiato, costituisce disciplina a parte il contratto d’appalto, in relazione al quale il rimedio “manutentivo” risulta sancito espressamente dall’articolo 1664 c.c., che disciplina due fattispecie distinte, quali: l’onerosità dell’esecuzione, in relazione alla quale le parti hanno diritto ad una revisione del prezzo, e le difficoltà di realizzazione dell’opera, ove si riconosce al solo appaltatore il diritto ad ottenere un equo compenso.
Nel primo caso, qualora per effetto di circostanze imprevedibili, si sia verificato un aumento o una diminuzione del costo dei materiali o della manodopera superiori ad un decimo del prezzo fissato, all’appaltatore o al committente è riconosciuto il diritto di ottenere una revisione dell’importo originariamente concordato. Differentemente, nel secondo caso, qualora sia possibile ravvisare una difficoltà sopravvenuta nell’esecuzione, derivante da cause naturali – quali “cause geologiche, idriche o simili” – e, secondo l’opinione prevalente, da sopravvenienze oggettive di tipo diverso qualora produttive di effetti analoghi o simili, all’appaltatore è accordato il diritto a ricevere un equo compenso.
In conclusione, l’ordinamento e la prassi sembrano fornire diversi rimedi “manutentivi” a seconda che la prestazione sia divenuta temporaneamente impossibile ovvero eccessivamente onerosa, spingendosi finanche ad ammettere che il Giudice possa intervenire sul regolamento contrattuale, modificandolo, al fine di contemperare gli interessi in gioco e, ove necessario, di ricondurre ad equità le pattuizioni divenute eccessivamente onerose. Coerentemente con tale orientamento, i soggetti parte di contratti in fase di stipula o conclusi durante l’emergenza sanitaria, hanno provveduto ad esplicitare, nei propri negozi, appositi obblighi di rinegoziazione in caso di permanenza nel medio-lungo periodo della situazione epidemiologica in corso e delle connesse misure restrittive alla circolazione ed alla produzione. Alla luce di ciò, ad oggi, appare sempre più definita la tendenza dell’ordinamento e della prassi contrattuale a conservare i vincoli precedentemente assunti, il cui eventuale omesso o ritardato adempimento dev’essere altresì valutato in considerazione dell’attuale insorgenza epidemiologica.
